lunedì 31 dicembre 2007

Tchaikovsky - Nutcracker,

Tchaikovski - Casse-noisette (Nutcracker) - Valse des fleurs

Favola Il Gatto con gli Stivali







Il Gatto con gli Stivali






C'era una volta in un paese lontano un povero vecchio mugnaio. L'uomo aveva tre figli e per farli crescere aveva ormai speso tutti i suoi risparmi; i suoi unici beni erano un vecchio mulino, un asino ed un gatto grigio.
Il mugnaio era molto vecchio ed un giorno, sentendosi ormai vicino alla morte, radunò i suoi ragazzi e gli disse: "Miei cari, voglio dividere tra di voi i miei averi. A te, che sei il più grande, lascio il mulino. A te invece l'asino e a te, che sei il più piccolo, lascio il mio amato gatto."
Pochi giorni dopo il mugnaio morì. Il giovane che aveva avuto in eredità il gatto non era per nulla soddisfatto.
"Non è giusto", si lamentava, "i miei fratelli possono mettersi d'accordo, lavorare e guadagnarsi da vivere con il mulino e l'asino, ma io che cosa ci faccio con un gatto? Potrei solo mangiarmelo e poi cucirmi un bel manicotto con il suo pelo per scaldarmi le mani d'inverno!"
Ascoltando quelle parole, subito il gatto drizzò le orecchie e, molto preoccupato di finire davvero arrostito, decise di intervenire in aiuto del suo nuovo padrone.
"Non disperarti così, padrone mio!", disse con un sorriso furbo. "Fidati di me, troveremo un modo per sopravvivere! Prima di tutto devi procurarmi subito un paio di stivali di cuoio, un cappello con la piuma ed un sacco di tela robusta."
Il giovane era un po' stupito, perchè proprio non riusciva ad immaginare che cosa avrebbe potuto fare un gatto con un cappello, un sacco di tela ed un paio di stivali. Alla fine però, pensando che in fondo non aveva nulla da perdere, decise di accontentarlo e, con i pochi risparmi che possedeva, procurò al gatto tutto ciò che gli aveva chiesta. Così, dopo aver indossato gli stivali ed un bel cappello rosso, salutò il padrone e si diresse nel bosco. Qui catturò un grande coniglio selvatico, lo infilò nel sacco e si incamminò tutto allegro verso il palazzo del re.
"Voglio essere ricevuto dal re in persona!", disse alle guardie che lo accolsero stupite all'ingresso, ma lo fecero entrare.
"Che cosa desideri?", chiese il re, incuriosito, trattenendosi a stendo dal ridere per il buffo abbigliamento dell'animale.
"Devo consegnarvi un dono da parte del marchese di Carabas, il mio padrone", rispose il gatto con un solenne inchino.
"Anche se non lo conosco", disse il re che era ghiottissimo di selvaggina, "ringrazia molto il tuo padrone da parte mia!"
Nei mesi seguenti il gatto continuò a portare a palazzo diversi doni provenienti da tutte le terre del marchese di Carabas ed il re era sempre più curioso di scoprire chi fosse mai questo misterioso e generoso marchese.
Un giorno, durante una delle sue visite, il gatto udì che il re e sua figlia, la mattina seguente avrebbero fatto una passeggiata in carrozza lungo il fiume.
"Domani vai al fiume e fai un bagno nel punto che ti indicherò", disse il gatto al padrone, "fidati di me e presto diventerai molto ricco."
Il ragazzo seguì le sue istruzioni, si immerse nell'acqua ed ecco arrivare la carrozza del re. Il gatto corse gridando: "Aiuto! Aiuto! Hanno derubato il mio padrone, il marchese di Carabas! Lo hanno spogliato e gettato nel fiume. Vi prego, aiutatemi a salvarlo perchè non sa nuotare!"
Il re a quelle grida riconobbe immediatamente il simpatico gatto che aveva portato tanti doni a corte. Fece fermare la carrozza, ordinò alle guardie di soccorrere il marchese di Carabas, lo fece vestire con un elegante abito nuovo ed invitò il ragazzo, che ora sembrava proprio un gentiluomo, a salire sulla carrozza. Mentre la carrozza avanzava lentamente lungo la strada, il gatto cominciò a correre avanti, precedendola. Arrivò in un campo dove i contadini stavano mietendo il grano e con aria minacciosa gridò: "Quando passerà di qui la carrozza del re, dite che queste terre appartengono tutte al marchese di Carabas, altrimenti ve ne pentirete!"
Così , quando la carrozza si avvicinò, il re chiese di chi fossero quelle terre e quei campi coltivati.
"Ma come sire, non lo sapete? Appartengono tutte al marchese di Carabas!", risposero in coro i contadini.
Il gatto con gli stivali sapeva perfettamente che in realtà tutti quei terreni appartenevano ad un orco, famoso per la sua magia, che abitava in un castello da quelle parti. Correndo all'impazzata per arrivare primo, giunse davanti al castello ed entrò dalla porta principale con passo deciso.
"C'è nessuno qui?", gridò con fare impertinente.
Finalmente arrivò il padrone, un omone gigantesco, con gli occhi cattivi che con una voce minacciosa chiese: "Come ti permetti di entrare nel mio castello senza essere invitato?"
"Signore, ho sentito dire cose incredibili sui vostri poteri magici ...ho sentito che potete trasformarvi in qualunque animale! Vorrei proprio vedere se è vero!", rispose il gatto.
L'orco, irritato che qualcuno osasse mettere in dubbio i suoi poteri magici, si trasformò in un grosso leone.
Il gatto, che era un furbacchione, disse: "E riuscireste a trasformarvi anche in un animale molto piccolo?"
L'orco diventò un topolino ed il gatto, velocissimo, allungò una zampa e lo divorò in un sol boccone!
Allora si precipitò alla porta principale e, non appena la carrozza giunse davanti all'ingresso, gridò: "Benvenuto nel magnifico castello del mio signore, il marchese di Carabas! Vi prego, entrate."
Il re non riusciva a credere ai suoi occhi! E neppure il giovane, che era ancora più sbalordito, ma si fece coraggio e invitò subito il sovrano e la principessa a visitare insieme il castello. La giovane fanciulla guardava con occhi sempre più innamorati quel giovane bello e dai modi gentili che accompagnava suo padre. Entrando, si resero conto che il castello era davvero splendido. C'erano moltissime sale, lunghi corridoi e si sarebbero sicuramente smarriti se non ci fosse stato il gatto che, sicuro di sè, con i suoi stivali, faceva da guida.
Dopo averli condotti nei saloni più sontuosi, si fermò in uno davvero immenso, con una tavola imbandita di mille piatti prelibati. Il banchetto era già stato preparato dall'orco che aveva intenzione di invitare alcuni suoi amici orchi quella sera ...ma ormai il gatto, con il suo piano perfetto ed astuto, aveva rovinato proprio tutto!
"Che splendida tavola! E che ricchezza di piatti avete fatto cucinare: selvaggina, dolci di ogni tipo, vino delle qualità più pregiate! Siete davvero generoso!", esclamò il re.
Si sedettero insieme, mangiarono e riuscirono a bere tutto il vino rosso e bianco; anche il gatto, con tutto quel correre, aveva un tremendo appetito. Il re intanto si accorse degli sguardi dolci che sua figlia gettava al marchese e di quanto il giovane fosse incantato dalla bellezza della principessa.
Durante il banchetto decise che quel giovane ricco e gentile poteva essere degno di sua figlia, che fino ad ora non si era mai interessata a nessuno dei numerosi prìncipi venuti da lontano per chiedere la sua mano.
"Caro marchese vedo che mia figlia vi guarda in modo davvero speciale", esclamò il re ad un tratto, "se l'intuito non mi inganna, mi pare che anche voi l'amiate molto. Sarei felice di vederla vostra sposa e di festeggiare presto le nozze."
Il gatto, soddisfatto, sorrideva sotto il cappello.
Il suo padrone non ci pensò nemmeno un minuto.
"Maestà, non potevate farmi regalo più bello! Sono davvero onorato di sposare vostra figlia, mi sono innamorato di lei appena l'ho vista nella vostra carrozza", rispose.
Alla principessa brillavano gli occhi dalla gioia e la data delle nozze fu fissata per il giorno dopo. Il matrimonio venne celebrato nel palazzo del re e tutte le famiglie più importanti del regno erano presenti. Vennero organizzati ricchi banchetti e festeggiamenti in tutte le piazze del reame, perchè anche il popolo potesse partecipare alla gioia di quel momento. Per tre giorni e tre notti il paese fu in festa e si sentivano canti di gioia che auguravano agli sposi una lunga vita insieme, piena di felicità.
Così il povero figlio del mugnaio divenne un principe ricchissimo e molto amato da tutti i suoi sudditi. Il gatto con gli stivali, che gli aveva procurato tanta fortuna, fu sempre trattato da gran signore, non ebbe più bisogno di procurarsi il cibo nei boschi e divenne il consigliere personale del re. Di tanto in tanto dava ancora la caccia a qualche topo, ma lo faceva solo per divertimento!

domenica 30 dicembre 2007

Vincent van Gogh - Lust for Life

Il sodalizio di Arles

Il sodalizio di Arles

Cronologia di quei 63 giorni in cui i due artisti lavorarono assieme. Per amicizia, ma anche per darsi battaglia
1888
20 febbraio: Van Gogh arriva ad Arles, da Parigi. Soggiorna per il primo periodo in una locanda, l’Hotel Carrel.
Giugno: Van Gogh dipinge la serie del Seminatore.
Primi contatti con Gauguin, per convincerlo a trasferirsi con lui a sud.
Luglio: Gauguin è ancora in Bretagna, a Pont-Aven. Qui dipinge due quadri tra i più famosi, "La visione del sermone e Cristo nell’Orto degli ulivi". Van Gogh vuole imitarlo ma non ce la fa. Scrive al fratello: "Ho grattato un grande studio dipinto con degli ulivi, con una figura di Cristo blu e arancione e un angelo giallo... l’ho grattato perché mi sono detto che non bisogna fare delle figure di questo impegno senza modello".
21/26 agosto: Van Gogh dipinge la celebre serie dei Girasoli, per arredare la stanza in cui starà Gauguin.
16 settembre: Scambio di autoritratti tra i due. Quello che Gauguin invia a Van Gogh da Pont-Aven si intitola I miserabili. A Van Gogh il titolo non piace: "Non approvo queste atrocità dell’opera. La nostra missione è quella di non farle sopportare a noi stessi né di farle sopportare ad altri".
7 settembre: Van Gogh entra nella casa di Place Lamartine, la celebre casa gialla, affittata in previsione dell’arrivo di Gauguin. È alle porte di Arles, "proprio all’ingresso del "paradiso del Sud""(Van Gogh).
29 settembre: Van Gogh annuncia al fratello di aver dipinto la Notte stellata sul Rodano, forse il suo capolavoro.
23 ottobre: Paul Gauguin arriva ad Arles.
5 novembre: dipingono in studio il ritratto di Madame Ginoux, che Van Gogh intitolerà L’Arlesiana.
20 novembre: Van Gogh dipinge le due celebri seggiole (La sedia di Vincent e la sua pipa e La sedia di Paul Gauguin).
25 novembre: è la volta del Seminatore, un altro dei quadri più celebri di Van Gogh. Inizi dicembre: Ritratti reciproci. Quello di Gauguin a Van Gogh scatena una furiosa litigata tra i due.
22 dicembre: dopo un nuovo contrasto, Gauguin annuncia a Van Gogh l’intenzione di partire. Nella notte l’olandese si taglia un lobo dell’orecchio destro. Viene ricoverato all’ospedale di Arles. Verrà dimesso il 7 gennaio.
23 dicembre: Paul Gauguin riparte alla volta di Parigi.
Vincent Van Gogh morirà il 29 luglio del 1890 a Auvers-sur-Oise, nel nord della Francia, dove il fratello l’aveva portato per farlo curare dal dottore degli impressionisti, Paul Gachet.
Paul Gauguin nel 1891 partì per Tahiti. Si stabilì alle isole Marchesi, dove morì nel 1903.

Paul Gauguin - Van Gogh



"Il nostro dovere è pensare, non sognare".

Firmato Vincent Van Gogh.

Destinatario Paul Gauguin
Paul Gaugin, autoritratto dedicato
a Vincent Van Gogh(I miserabili),
1888,Van Gogh Museum,Amsterdam Van Gogh, autoritratto dedicato a Paul Gauguin (Bonzo),
1888, Fogg Art Museum dell‘Università di Harvard

Basterebbe questa sentenza, con cui di fatto si chiuse una breve e intensissima amicizia, per descrivere i caratteri di due esperienze opposte e incomunicabili. Se c’erano dei dubbi sulla radicale differenza che oppose l’uno all’altro i due mitici maestri dell’arte moderna, la mostra aperta prima a Chicago e poi ad Amsterdam li ha davvero fugati tutti. Una mostra straordinaria proprio per la chiarezza con cui si sono lasciate parlare, quasi gridare, le differenze. Una mostra d’impatto tale da non aver quasi bisogno di didascalie o di contestualizzazioni: il semplice accostare le opere che i due avevano dipinto nelle stesse ore e negli stessi luoghi in quei 63 giorni di vita comune ad Arles, imponeva evidenze elementari. Sarà stato anche questo fattore ad aver determinato il successo dell’esposizione, visitata da quasi un milione e mezzo di persone nelle due sedi? C’è, sinceramente, da pensarlo.
"Il nostro dovere è pensare, non sognare". Eppure era stato proprio Van Gogh a sognare a lungo quel sodalizio, primo nucleo di una comunità di pittori da radunare sotto il sole della Provenza. Era stato lui a tallonare l’amico Paul Gauguin, a farlo mettere sotto pressione dal fratello Theo, che di Gauguin era anche il mercante, e quindi teneva i cordoni della sua borsa. Decine di lettere scritte nell’estate del 1888 testimoniano l’ansia, l’impazienza, ma anche le enormi aspettative che Van Gogh riponeva su quella venuta. Gauguin, in quei mesi, stava in Bretagna, a Pont-Aven, un po’ malaticcio, e tergiversava con scuse anche un po’ patetiche, come la fatica del viaggio in treno per un artista debilitato come lui. Era di poco più anziano, già con un carattere da leader, tant’è che aveva un entourage di ammiratori e imitatori. Van Gogh era l’opposto, pieno di insicurezze, ingenuo nella vita, incapace di nascondere qualcosa di sé o di quello che faceva, come dimostrano le migliaia di lettere che ha lasciato, nell’arco, pur breve, della sua vita.Gauguin, al contrario, si muoveva sempre negli spazi dell’ambiguità, sia che si trattasse di decidere i propri comportamenti sia che si trovasse davanti al cavalletto. Se Van Gogh era monacale nel suo bisogno di cercare regole o presenze alle quali appoggiare la propria vita, Gauguin era insofferente di quelle giornate ritmate solo dal lavoro. Se Van Gogh ostinatamente s’attaccava ad ogni appiglio che la realtà gli offriva, Gauguin aveva come orizzonte finale la propria interiorità: lì il mondo iniziava e finiva. Per questo c’è davvero da credere che quando, dopo tanto esitare, si decise a prendere il treno che lo avrebbe portato ad Arles, aveva in realtà in testa solo il modo e i tempi in cui mandare a monte quel sodalizio. La fisicità della pittura di Van Gogh lo infastidiva, non sopportava quella materia grumosa e quasi fangosa, che, non si sa per quale forza, sulla tela s’accendeva di una luce a volte abbagliante. Addirittura non sopportava la cucina di Vincent, troppo grassa, troppo contadina, così poco ascetica come tutto nella vita di quello strano olandese che si ostinava a fare il pittore senza essere mai riuscito a vendere un quadro in vita sua.
A partire da quel 23 ottobre 1888, martedì, ore 5 del mattino, quando Gauguin scese dal treno alla stazione di Arles, iniziò così uno strano duello, in cui uno dei due contendenti incassava, senza per nulla soffrire, e l’altro imponeva la sua volontà, senza assolutamente riuscire ad essere felice. Gauguin arrivò, come detto, alle 5 del mattino e subito sperimentò lo stile di Van Gogh. L’olandese, felice per l’arrivo dell’amico, aveva infatti parlato di lui a tutti nella cittadina, mostrando l’autoritratto che Gauguin stesso gli aveva inviato qualche settimana prima. Così la barista del caffè alla stazione lo riconobbe immediatamente: più che lo stupore c’è da immaginare il fastidio che quel primo impatto gli provocò. Lui, abituato a muoversi nell’indistinto, doveva convivere con uno che metteva tutto in piazza. Quanto poteva durare? "Il nostro dovere è pensare, non sognare". Van Gogh, pur nella sua arrendevolezza e semplicità, era caparbiamente attaccato ad alcune evidenze elementari. Prima tra tutte, quella che non si può dipingere senza vedere, senza aver di fronte l’oggetto. Gauguin, al contrario, appena arrivato, aveva cercato di convincerlo alla pittura di immaginazione. Si mettevano con il cavalletto sullo stesso punto, dipingevano i ritratti alla stessa persona, come due allievi in accademia, ma i risultati erano sempre così lontani. Gauguin trasferiva le immagini in uno spazio mentale, le decontestualizzava dalla realtà, come creature fluttuanti in un nirvana. Sagome ritagliabili, ricollocabili in altri mondi, alleggerite di ogni concretezza e per questo ridotte a due dimensioni, cioè private volutamente di profondità. Ancor prima che arrivasse, Van Gogh aveva colto qualcosa di insano nel suo futuro compagno. "Mi fa l’effetto di un prigioniero", scrive al fratello. "Non c’è un’ombra di allegrezza. Non c’entra nulla con il mondo della carne, ma si può mettere sul conto della sua volontà melanconica. La carne nell’ombra è lugubramente rabbuiata". E poi ancora: "Gauguin ha l’aria malata nel suo ritratto torturato". Ma come, non era Van Gogh il depresso, lo schizofrenico, il perseguitato dal complesso di fallimento? Tra le sale della mostra di Amsterdam le parti si rovesciano con nitidezza. Gauguin, il grande Gauguin, si svela saturo di accidia, quasi ostaggio della sua ambiguità. Illude se stesso e gli altri d’aver trovato la via di fuga dai problemi formali e intellettuali che la fine dell’Impressionismo (l’ultima rassegna impressionista si era tenuta proprio un anno prima, nel 1887), aveva spalancato. In realtà passo dopo passo si cala in un orizzonte occulto e magico dentro il quale smarrisce anche la sua innata grazia di pittore, come dimostra l’ultima, quasi disperante, sala della mostra. Sulla parete finale c’è infatti quella natura morta con girasoli e manghi, dipinta nel 1901, in cui, nonostante il soggetto, si era persa ogni traccia dello splendore di Van Gogh. Al centro del mazzo compare l’inquietante occhio di Dio, dentro un girasole. Inquietante deriva mistico-magica di uno che aveva sempre diffidato della realtà.
Dall’altra parte Van Gogh tiene botta. È felice di quel sodalizio, baldanzoso come un bambino. Organizza la vita sin nei minimi dettagli, con una cura ogni tanto sopra le righe. Assegna, senza batter ciglio, il ruolo di superiore a Gauguin, cui assegna, di sua sponte, la camera più bella. "Le nostre giornate passano a lavorare, lavorare sempre. La sera poi siamo sfiniti e andiamo al caffè, per andare a dormire presto! Ecco la vita!", scrive sempre al fratello in novembre. Gli piacciono anche le infinite discussioni in cui si infilano, e che qualche volta sfociano in litigate più o meno furiose. Da allievo accondiscendente accetta di dipingere su quella tela di juta, e non di lino come era sua consuetudine, che Gauguin, appena arrivato, aveva comperato. La juta, a trama larga, si beve il colore, e lascia sui quadri delle apparenze più che delle realtà. Trasforma le figure in fantasmi, toglie ogni appoggio alle cose. Scarnifica, spiritualizza la pittura. Anche la scelta della tela diventa così uno strumento per forzare la natura di Van Gogh. Gauguin aveva annunciato questa intenzione prima di arrivare ad Arles, con una lettera: "Un consiglio, non copi troppo la natura. L’arte è un’astrazione; la tiri fuori dalla natura sognando davanti a quella, e pensi più all’atto creativo che al risultato; è l’unico modo di ascendere a Dio...".

John Simm-Yellow House

The Yellow House - Painting Sequence

Paul Gauguin

Paul Gauguin - Vita Opere

Pittore


PaulGauguin nasce a Parigi nel 1848, e già l’anno successivo la sua famiglia si trasferisce in Perù. Tornato in patria a sette anni, studia ad Orléans e poi a Parigi, in collegio. Nel 1865 s’imbarca come cadetto su un mercantile per il Sudamerica. Viaggia per mare nei successivi due anni e partecipa alla guerra franco-prussiana del 1870. Alla fine del conflitto, nel 1871, s’impiega come agente di cambio e comincia anche a dipingere. Negli anni successivi conosce Pissarro e Cézanne e si lega al gruppo impressionista, partecipando ad alcune mostre del movimento. Nel 1883 lascia il suo lavoro, e si trasferisce a Rouen in casa di Pissarro. In seguito ad una maturazione artistica che lo porta a considerare come fondamentali le esperienze artistiche “primitive”, inizia una serie di spostamenti che lo condurranno dall’Europa al Sudamerica fino ai domini francesi delle Isole Marchesi. Nel 1886 è per la prima volta in Bretagna, a Pont-Aven, dove torna nel 1888 dopo un viaggio in Martinica. L’esperienza bretone è fondamentale per l’elaborazione del cosiddetto “sintetismo”, uno stile che il critico contemporaneo Albert Aurier definirà tipico di un’arte “idealista, simbolista, sintetica, soggettiva e decorativa”; alla base del sintetismo sono la conoscenza delle stampe giapponesi, il primitivismo espressivo della scultura bretone, il colore piatto e il “cloisonnisme” delle vetrate gotiche. Esempio fondamentale delle conclusioni sintetiste è il dipinto La visione dopo il sermone del 1888. Dopo un breve soggiorno ad Arles, ospite di van Gogh, e a Le Pouldu, a partire dal 1891 soggiorna a più riprese a Tahiti, dove colora di esotismo il suo già accentuato, eclettico primitivismo, elaborato anche sulla conoscenza “fotografica” delle pitture egizie, delle sculture del Partendone e di Borobodur. La vita nel paradiso ritrovato dell’Oceania non sarà comunque così edenica, ma segnata da malattie, da un tentativo di suicidio e - nelle Isole Marchesi, dove si trasferisce nel 1901 - da un periodo di detenzione per aver istigato gli indigeni alla ribellione. Muore a Hiva Oa nel 1903. La sua esperienza artistica, fondamentale per i contemporanei nabis, influenzerà anche la ricerca dei fauves e degli espressionisti tedeschi del gruppo dei Brücke.

venerdì 28 dicembre 2007

Storia del Torrone


Storia del Torrone
Si è voluto dimostrare, forzando l’interpretazione delle fonti, di epoca romana, che fin da quei tempi lontani sarebbe esistito un dolce simile al torrone del quale, tra l’altro, Cremona era già una rinomata esportatrice.Tuttavia il vero e proprio torrone moderno, secondo un’altra tradizione più nota, avrebbe avuto invece origine da un dolce servito il 25 ottobre 1441 al banchetto che si tenne dopo le nozze, celebrate a Cremona, fra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti. Tale dolce consisteva, come è storicamente accertato, in un composto di mandorle, miele e bianco d’uovo molto compatto, modellato in modo da riprodurre la forma del campanile del duomo, il noto Torrazzo (all’epoca chiamato Torrione). Stando quindi a quanto viene raccontato, in quell’occasione e per iniziativa estemporanea di un cuoco sarebbe nato tutt’a un tratto il dolce con già la forma e il nome definitivi.Anche volendo considerare quanto finora esposto solo come leggenda, ciò non toglie che, analogamente a tutti i casi del genere, il mito adombri verità antiche e cosmopolite: gli ingredienti di base del torrone, cioè le mandorle e il miele, abbondantemente disponibili in tutto il bacino del Mediterraneo, fin dai tempi più remoti sono stati utilizzati per creare alcuni dolciumi come la romana cupedia (citata in Terenzio, Varrone e Plauto benché spesso il contesto faccia ritenere che non ci sia un riferimento ad un dolce ben determinato, ma l’accezione sia usata solo nel senso di prelibatezza) e l’arabo turun dai quali, attraverso una lenta evoluzione, è derivato, nel nome e nella struttura, il nostro torrone.In definitiva si trattava di materie prime in grado di dare un prodotto facilmente conservabile, adatto ad eserre portato con sé dai legionari romani e dai viaggiatori arabi, senza contare che si presentava particolarmente indicato nel clima caldo – almeno più di altre specialità dolciarie – che caratterizza l’estate tanto lungo le coste del Mediterraneo quanto nella pianura padana.Cremona fin dall’antichità era un importantissimo scalo fluviale, una città industriale e commerciale, un centro militare: non poteva certamente ignorare l’esistenza di questi tipi di dolci importati da paesi lontani o, ancora prima, utilizzati dai legionari come gratificante complemento del rancio e, forse, conservati a lungo come ricordo della casa lontana.E’ quindi più che probabile che il preparato di base fosse ben noto nella città fin dai tempi antichi e che, attraverso i secoli, il suo consumo sia entrato nelle abitudini della popolazione locale.Se è valido quanto asserito sopra la notizia del dolce preparato per il matrimonio di Bianca Maria Visconti acquista un significato tutto particolare: anche se il torrone non fu inventato in quell’occasione e probabilmente si fece ricorso a questa specialità soprattutto perché era la più adatta a mantenere in piedi la “scultura”, modo di presentare i prodotti gastronomici particolarmente apprezzato in quell’epoca, ciò però dimostra che a Cremona il prodotto doveva essere già ben conosciuto e “collaudato”, tanto che il pasticcere ducale, sicuramente non cremonese, fu consigliato da qualcuno, dotato di sufficiente autorevolezza e certo del buon risultato che si sarebbe raggiunto, ad impiegare proprio il torrone.Comunque siano andate le cose, è sintomatico che a partire da quell’epoca Cremona comincia a figurare come produttrice di torrone ed a legare il suo nome a questo prodotto che fin da allora - complice la denominazione e l’aspetto, che indubbiamente richiamano il Torrazzo- diventò uno dei simboli della città ed il mezzo più efficace per propagandare il nome della città nel mondo.Gli accenni espliciti al consumo (e, indirettamente, alla produzione) del torrone si trovano numerosi già a partire dal XVI° secolo.Infatti si ha notizia che fin dal 1543 il Comune di Cremona acquistava torrone presso un tale Spezziale dell’Incoronata per farne omaggio all’autorità –soprattutto quelle di Milano_ dove in continuazione, per trattare gli affari attinenti alla città, venivano inviati messaggeri, oratori e rappresentanti.Inoltre, in una curiosa legge del 1572 con la quale si intendeva contenere il lusso che allora veniva smodatamente ostentato in ogni campo dai ricchi cremonesi, a proposito delle limitazioni nel numero delle portate nei banchetti, è scritto, tra l’altro: “…non si possi dare…più di due sorte de confetti di zuccaro non compresi la codognata, o torone, o copetta, quali senz’altro si permettono…”.Da queste disposizioni si intuisce come il torrone fosse già allora estremamente radicato nelle abitudini dei cittadini di Cremona, con una posizione tutta particolare fra gli altri dolciumi tanto che il suo consumo non veniva penalizzato dalle autorità.Il torrone, fin da allora, conosceva anche un gran successo di esportazione, diventando uno dei migliori biglietti da visita di Cremona.

giovedì 27 dicembre 2007

La Vera storia del Panettone

La Vera Storia
del Panettone

La vera storia della nascita del famoso dolce ambrosiano è avvolta nel più fitto dei misteri. Tuttavia, diverse leggende, ne raccontano le origini e tra queste la più accreditata narra, di un grandioso pranzo natalizio in "casa" Sforza. I potenti signori meneghini, soddisfatti per questo pranzo, nel quale ogni portata aveva superato la precedente per bontà, attendevano con ansia il momento dei dolci. Il cuoco, fin li perfetto, si accorse, improvvisamente, che il forno gli aveva giocato un brutto scherzo! Tutto quanto da lui cucinato si era bruciato!!!! Mentre, disperato, si stava accingendo ad andare nella sala a scusarsi con i commensali, il suo aiutante, chiamato Toni, gli propose di presentare il dolce che lui aveva preparato con gli avanzi. II cuoco, non avendo altra scelta, accettò e presentò in tavola "quella specie di pane! fatta dal suo sguattero. Di lì a poco, con grande meraviglia del cuoco, un coro di evviva e di complimenti, si levò dalla sala. Il cuoco, dovete sapere, che era una persona molto onesta e, malgrado fosse osannato da tutti, confessò che il merito andava al suo aiutante ed al suo "Pan di Toni". Un'altra leggenda racconta di un giovane falconiere, tale Ughetto Atellani, perdutamente innamorato di una fornaia di nome Algisa, che aveva il forno in vicinanza della Chiesa delle Grazie. Gli affari non andavano tanto bene per quest'ultima a causa dell'apertura di un altro fornaio poco lontano. Il Natale si avvicinava, ma i clienti continuavano ad allontanarsi ed a preferire l'altro negozio; allora, Ughetto, messo mani ai suoi ultimi denari, compro burro, zucchero, uova e uva sultanina, impastò tutto con fior di farina e ... il successo fu enorme…….potere dell'amore!!!! La lunga coda di fronte alla bottega diceva che le sorti di Algisa si erano rovesciate e, inutile dirlo, i due innamorati convolarono a giuste nozze e …….vissero per sempre felici e contenti!!!! Ve ne è ancora un'altra di leggenda, quella che narra di alcune suore - siamo nel 1200 - che abitavano nell'umida e nebbiosa campagna alle porte di Milano e che vivevano di elemosina. Quell'anno i milanesi non erano stati molto prodighi nei confronti delle religiose e alla vigilia di Natale in dispensa non era rimasta che poca farina con la quale venne preparato del pane. Quando la superiora si accinse a benedirlo, miracolosamente quel pane si trasformo in un meraviglioso panettone. Considerate tutte le leggende e da quanto ci suggerisce il nome stesso, si può dedurre che il panettone non e altro che un pane, cioè una pasta lievitata naturalmente. Certo, la preparazione e più complessa di quella del pane di tutti i giorni e la ricetta è, inoltre, arricchita da burro, uova, zucchero, canditi e da altri pregiati ingredienti. Le prime tracce di un dolce simile al panettone risalgono all'epoca di Ludovico il Moro, verso la fine del XV secolo, anche se e ben al IV' secolo a.C. che risale la scoperta, per altro accidentale, del pane fermentato (un'inondazione del Nilo, devastando i magazzini, di farine, permise per la prima volta la fermentazione naturale) . Comunque, leggende a parte, bisogna riconoscere che il Panettone è da sempre per noi italiani, l'emblema del Natale e rappresenta simbolicamente l'unione familiare intorno ad un tavolo per festeggiare la nascita di Gesù Bambino!

mercoledì 26 dicembre 2007

Compositore - Michael Nyman
















Michael Nyman
Michael Nyman (Londra, 23 marzo 1944) è compositore, pianista, librettista e musicologo britannico.Michael Nyman è un rappresentante del minimalismo in musica, ed è stato tra i primi ad utilizzare questo termine in contesto musicale nel 1969.Biografia Diplomato alla Royal Academy of Music e al King's College di Londra, fu prima critico musicale, ma poi iniziò a comporre musica per cortometraggi.Nel 1967 Nyman ha iniziato una lunga collaborazione con il regista gallese Peter Greenaway, per il quale ha composto numerose colonne sonore. La sua popolarità si è molto accresciuta all'uscita del film Lezioni di piano (The Piano, 1993), di cui ha scritto la colonna sonora. In seguito ha composto le musiche per film come Gattaca - La porta dell'universo (Gattaca) e Fine di una storia (The End of the Affair).Tuttavia Nyman è anche conosciuto per i suoi lavori musicali non legati ai film come Noises, Sounds & Sweet Airs (1987), per soprano, contralto, tenore e ensemble strumentale (basato sullo spartito di Nyman per La Princesse de Milan); Ariel Songs (1990) per soprano e banda; MGV (Musique à Grande Vitesse) (1993) per gruppo; concerto per piano (basato sullo spartito di Lezioni di piano), arpicordo, trombone e sassofono; l'opera The Man Who Mistook His Wife for a Hat (1986), basato su un case-study di Oliver Sacks; e diversi quartetti d'archi.Molte composizioni di Nyman sono state scritte per il suo proprio gruppo, the Michael Nyman Band, formato per una produzione nel 1976 de Il Campiello di Carlo Goldoni.

Film "Lezione di Piano"








Lezioni Di Piano (The Piano)
Cast
Holly Hunter, Harvey Keitel, Anna Paquin, Sam Neill, Kerry Walker, Geneviève Lemon, Ian Mune
Regia
Jane Campion
Sceneggiatura
Jane Campion
Data di uscita
1993
Genere
Romantico/Drammatico
"LEZIONI DI PIANO" Trama
Nel 1852, la quarantenne Ada lascia l'Inghilterra insieme alla figlia Flora di 9 anni, frutto di un precedente legame, e col suo adorato pianoforte, con cui si esprime appassionatamente visto che non parla da quando aveva 6 anni. Deve raggiungere la Nuova Zelanda e sposare lo sconosciuto Amstair Stewart. Quando questi giunge coi suoi maori sulla spiaggia dove Ada, Flora e bagagli lo hanno atteso a lungo, nonostante le insistenti richieste della donna, si rifiuta di far trasportare il pianoforte fino a casa sua attraverso la jungla fangosa. L'abbandono del prezioso strumento sulla riva, provoca l'ostilità insanabile della moglie, che si rifiuterà ostinatamente al marito. L'inglese analfabeta George Baines, vicino ed amico di Stewart, che vive fra i maori, ha sentito Ada suonare sulla spiaggia restandone affascinato e propone a Stewart, sempre avido di terra, di cedergli un suo terreno in cambio del piano, sul quale Ada dovrebbe poi dargli lezioni. Il marito accetta, e così, trasportato nella sua casa di legno e fattolo accordare accuratamente, Baines ottiene che Ada vada da lui con Flora. Invece di studiare, però, si limita a guardare la donna suonare, come rapito in estasi, mentre la bambina gioca all'aperto. Un giorno George bacia Ada sul collo e, alla sua ripulsa, le propone un contratto: per riavere il piano, deve concedergli ogni volta qualcosa di sé e avrà in cambio un certo numero di tasti. La donna accetta e così Baines, che si è innamorato appassionatamente di Ada, riesce a conquistare la pianista, che finisce col ricambiarlo. Ma un giorno egli rinuncia alla donna dicendole che sta facendo di lei una sgualdrina e di sé uno sciagurato e le rimanda il pianoforte a casa, come regalo. Intanto Flora ha insospettito il patrigno, raccontandogli qualcosa di ciò che ha visto. Ada, accarezzando il suo piano adorato, trova nell'interno un cuore trafitto inciso rozzamente, e si precipita a casa di Baines che le confessa il suo amore, per il quale è infelice, chiedendole se lei lo ricambia. Ada dapprima lo schiaffeggia, poi lo bacia appassionatamente mentre il marito spia da fuori i due amanti. Respinto di nuovo Stewart, questi la imprigiona in casa, così Ada incide su un tasto del piano un messaggio d'amore per George e glielo manda tramite Flora. La bambina invece, per gelosia lo porta al patrigno che, infuriato, taglia con la scure il dito indice di Ada perché non possa suonare più e lo invia a Baines, avvertendolo che taglierà altre dita, se egli rivedrà sua moglie. Quando però più tardi George affronta Stewart, accusandosi dell'intera responsabilità dell'accaduto, il marito, pentito, permette che Ada parta con lui, insieme a Flora e al pianoforte. Appena la barca si trova al largo, la donna ordina di gettare in mare lo strumento. E così vien fatto, ma una corda afferra per caso un piede di Ada, che cade in acqua legata al piano e morrebbe nel profondo, se un improvviso desiderio di vivere non la spingesse a lottare e a liberarsi. Giunti a terra e stabilitisi in un centro abitato, George fabbrica per Ada un dito in metallo, cosicché la donna può dare lezioni di piano e vivere serena, circondata dall'amore di lui, imparando perfino a parlare di nuovo.

martedì 25 dicembre 2007

lunedì 24 dicembre 2007

Storia del Natale "La Leggenda del Pettirosso"







Storie di Natale:
La leggenda del Pettirosso.
U
n piccolo uccellino marrone divideva la stalla a Betlemme con la Sacra famiglia.La notte, mentre la famiglia dormiva, notò che il fuoco si stava spegnendo.Così volò giù verso le braci e tenne il fuoco vivo con il movimento delle ali per tutta la notte, per tenere al caldo Gesù bambino.Al mattino, era stato premiato con un bel petto rosso brillante come simbolo del suo amore per il neonato re.

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